ESPORRE IL CINEMA: CHANTAL AKERMAN

Tributo a Chantal
Claire Atherton

Chantal Akerman e Claire Atherton durante il montaggio di No Home Movie, 2014 foto dal film I don't belong anywhere di Marianne Lambert

Chantal Akerman e Claire Atherton durante il montaggio di No Home Movie, 2014
foto dal film I don’t belong anywhere di Marianne Lambert

Voglio parlarvi di Chantal. Raccontarvi tutto quello che mi ha dato, tutto quello che mi ha insegnato, tutto quello che abbiamo condiviso. Raccontarvi com’era: luminosa, intelligente, sorprendente e anche divertente…

Chantal era una persona molto libera e intuitiva, a volte anche provocatoria. Non aveva divieti. Non diceva mai “dobbiamo filmare così, inquadrare cosà, puoi far questo, non puoi far quello”. Le sue scelte venivano tutte da dentro. Veniva guidata da quello che sentiva. Con le immagini, con i colori, con i suoni, con i ritmi, aveva una relazione fisica più che celebrale. Durante il montaggio, non l’ho mai sentita dire: “ho un’idea”. Piuttosto diceva: “ho sentito che, o ho pensato, o voglio quello, o sono ossessionata da questa cosa”. Non ha mai detto “mi è venuta un’idea”.

Quando stava per fare un documentario, non spiegava mai quello che poi avrebbe fatto. Se lo spiegava troppo, andava a finire che non aveva più voglia di realizzarlo. Voleva andare sul posto, ed essere un contenitore sensibile, una spugna. Non voleva confinare il film in un progetto, ma lasciare che le venisse incontro e lasciarsi travolgere dal materiale. Se le immagini di Chantal sono così profonde e forti, se vanno al di là di quello che veramente mostrano, è proprio perché non sono confinate solo a delle intenzioni, ma sono cariche di tutte le preoccupazioni, le ossessioni, che la abitavano.

Questo modo di procedere, di “scoprire nel mentre che faceva”, era qualcosa di molto forte quando lavoravamo a delle installazioni. Infatti su un progetto di un’installazione, Chantal scrisse: “Ho detto tante cose su questa installazione che poi ha seguito From the East prima ancora di farla, e capisco adesso che, più che un film, un’installazione per me non può essere descritta prima, è un qualcosa che nasce poco a poco nello svolgimento del lavoro. Anche in questo caso, non dirò niente eccetto la necessità di frammentazione perché questo dimostra bene che noi non possiamo dire tutto al mondo.”

Durante il montaggio di D’Est, avevamo sentito che le lunghe carrellate sui volti delle persone in attesa, le immagini delle persone che camminavano, in realtà si riferivano anche ad altre persone in attesa o ad altre persone che camminavano, ad altre code, ad altre storie all’interno della storia, ma non ne parlavamo. È stato solo un anno dopo, quando stavamo preparando l’installazione “From the East: Bordering on Fiction” che Chantal mise in parole proprio gli echi di quelle immagini. Vorrei leggervi queste parole dal venticinquesimo schermo:

Bisogna sempre scrivere quando uno desidera fare un film, sebbene non si sappia niente del film che uno vuole realizzare. Tuttavia uno sa già tutto, ma non se ne rende conto – per fortuna direi. Solo quando ci si confronta con l’atto della realizzazione il film si rivela. Andando un po’ a tentoni, in uno stato quasi di esitazione ceca e zoppicante, a volte in un bagliore di auto evidenza. E piano piano ci rendiamo conto che è sempre la stessa cosa che viene ad essere rivelata, un pochino come la scena primaria. E la scena primaria per me –per quanto ci combatta, finisco sempre per provare rabbia verso essa, e qua dobbiamo affrontare i fatti: è sempre dietro o è sempre davanti, vecchie immagini a malapena coperte dalle altre, più luminose, addirittura radianti. Vecchie immagini di evacuazione, di risvegli nella neve con bagagli verso un luogo sconosciuto, di volti e corpi messi uno accanto all’altro, di volti che tremolano tra una vita intensa e la possibilità di una morte che li colpirà senza che abbiano chiesto nulla.

Hanno spesso detto di Chantal che aveva dei principi estetici. Ecco, io ritengo che i principi ci proteggono, ma Chantal non si è protetta. Si fidava del fatto che qualcosa sarebbe accaduto, sapeva come dare il benvenuto al caso.

Chantal amava le riprese frontali. Non era una decisione formale ma piuttosto una questione di gusto, quasi di bisogno. L’asse frontale non descrive, non designa, ma crea uno spazio di percezione e di riflessione. Quello spazio è proprio quello in cui noi lavoravamo durante il montaggio. È uno spazio che viene lasciato agli spettatori stessi in modo che possano esperire, sentire e ricercare. Chantal insisteva sul fatto che dovessero lavorare anche gli spettatori. Di solito diceva che voleva che le persone sentissero il passare del tempo nei suoi film. Quando qualcuno diceva, “ho visto un bellissimo film, non mi sono nemmeno accorto del tempo che passava”, lei non lo interpretava come un complimento. Riteneva che il tempo dello spettatore era stato rubato. Nel montaggio, non dicevamo mai, “guarda, qui abbiamo bisogno di un inquadratura lunga”. Sceglievamo la durata in maniera intuitiva, e poi capivamo il perché successivamente. Era come se le inquadrature imponessero la propria durata. Dal momento in cui il film cominciava a esistere venivano rifiutate certe scene, e noi non esitavamo un attimo a eliminarle, o ad accorciarle. Se il film rifiutava un’inquadratura, anche una bella, noi non insistevamo. E spesso, questo ci dava la forza per quello che poi sarebbe venuto dopo, quindi il film vinceva. Infatti dicevamo sempre che nel montaggio è un gioco di “perdenti che vincono”.

Ogni film, ogni installazione era come se fosse la prima volta. Non avevamo regole, timori o barriere. Ogni volta ri-entravamo in una nuova avventura sensoriale ed intellettuale. I nostri scambi erano molto semplici. Poche parole, come se troppe parole rischiassero di rovinare qualcosa. Spesso dicevamo, “è bello” oppure “è forte”. Avevamo le parole per quello che ci piaceva; lei diceva dobbiamo essere drastiche, senza concessioni. A volte dicevamo anche di dover accorciare. Altre volte io le dicevo: “dobbiamo rendere questa cosa più complessa”. Le piaceva questa parola. Spesso mi diceva: “si, rendiamolo un po’ più complesso”. Era come se sentissimo che c’era qualcosa di troppo lineare, di troppo semplice. Rendere complesso non vuol dire complicare, ma vuol dire aggiungere un peso e un contrappeso, modellare la tensione.

Per Chantal, tutto era possibile. Non voleva limitarsi a un genere preciso. Non ha mai voluto fare un cinema elitario o riservato. Quando realizzò A Couch in New York, sperava di fare un film commerciale che tutti sarebbero andati vedere. Comunque, le faceva sempre piacere che le persone andassero a vedere i suoi film. Quando iniziai il montaggio di Un Divan, Chantal stava ancora filmando. Ero sorpresa del fatto che ci fossero così tante riprese per scena. Non ero abituata a questa cosa con Chantal; normalmente, quando sentiva che una ripresa era buona, passava alla scena successiva. Al suo ritorno, mi spiegò perché. Mi disse che c’erano così tante cose in gioco dal punto di vista finanziario in questo film che le era stato chiesto di fare tante riprese “per stare tranquilli”. E lei mi disse: “questa non è più una questione di stare tranquilli, non è più una coperta, è diventata una pila di piumoni!! E io soffoco sotto tutti questi piumoni!”

Si, Chantal era divertente. A volte ce lo dimentichiamo. Divertente e libera. Fuori dall’ordinario. Quando facevamo il montaggio di South, lavoravamo nel pomeriggio, e la mattina invece ognuno di noi faceva gli affari propri. Un giorno arrivai e lei mi chiese: “che cosa hai fatto stamani?” Mi faceva spesso questo tipo di domande semplici: Che cosa hai fatto? Che cosa hai mangiato?…Così io le risposi: “ho fatto delle tende”. Lei replicò “hai fatto delle tende tutta da sola? Sai, questa cosa mi colpisce ancora di più che se tu avessi vinto un Oscar per il miglior montaggio!”

Mi è stato spesso chiesto se il lavoro di Chantal era politico. Io penso che ciò sia ovvio. I suoi film sono politici, ma non perché trattano di questioni politiche, ma perché ci fanno mettere in movimento. Ci mettono in relazione diretta con noi stessi e con il mondo.
Chantal non voleva copiare la realtà o rappresentarla. Non voleva spiegare niente perché le spiegazioni prevengono le domande. Nei suoi film, il presente e il visibile risuonano con il nascosto e l’invisibile. E queste risonanze, questi spostamenti, aprono uno spazio per il pensiero. Scopriamo un nuovo territorio, e nascono nuovi significati, significati che non sono definiti.

È questo che rende il cinema di Chantal così potente e vivo.

Claire Atherton

La versione completa di questo tributo è stata letta da Claire Atherton durante l’omaggio a Chantal Akerman alla Cinémathèque Française il 16 novembre 2015, prima della proiezione in anteprima di No Home Movie (2015). Ed è stata pubblicata in Senses of Cinema : Chantal Akerman, An Intimate Passion nel dicembre 2015


Claire Atherton è una editor cinematografica nata nel 1963 a San Francisco. Attratta dalla filosofia taoista e dagli ideogrammi visivi, si è dedicata allo studio della lingua e della civiltà cinese, poi si è iscritta al ramo professionale dell’Ecole Louis Lumière di Parigi. Si è interessata al suono e ha lavorato anche come cinematografa. Ma è nel montaggio che ha trovato la sua strada.

Ha incontrato Chantal Akerman durante una ripresa nel 1984. Due anni dopo, ha montato Letters Home, un film poco conosciuto con Delphine e Coralie Seyrig. Questo lavoro ha rivelato una notevole complicità e una sensibilità condivisa con la Akerman che sono aumentate con il tempo attraverso documentari, fiction e installazioni. Atherton e Akerman hanno lavorato insieme per più di 30 anni, fino all’ultimo film di Akerman No Home Movie e all’ultima installazione Now.

Inoltre, la Atherton lavora come montatrice con una vasta gamma di registi e artisti. Ha collaborato per diversi anni con Eric Baudelaire per i suoi film e installazioni.

Nel 2019, ha ricevuto il Vision Award Ticinomoda dal Festival Internazionale del Film di Locarno per il complesso dei suoi lavori.

Tribute to Chantal

Claire Atherton

I want to speak to you about Chantal. To tell you everything she gave me, everything she taught me, everything we shared. To tell you how she was: luminous, intelligent, surprising, and funny too …

Chantal was very free and intuitive, sometimes provocative. She had no prohibitions. She did not say “we must film like this, we must frame like that, you can’t do this, you can’t do that”. Her choices came from within. She was guided by what she felt. She had more of a physical than cerebral relationship to images, colours, sounds, rhythm. When editing, I never heard her say: “I have an idea”. She would rather say: “I heard that, or I thought of that, or I want that, or I am obsessed with that”. It was never: “I have an idea”.

When she was about to make a documentary, she did not want to explain what she would do. If she explained it, she no longer had the desire to make it. She wanted to go on location, and be a sensitive plate, a sponge. She did not want to confine the film to a project but allow it to come to her and let herself be swept through by the material. If Chantal’s images are so profound and strong, if they go beyond what they show, it is because they are not confined to intentions, but are charged with all the concerns, the obsessions, which inhabited her.

This way of working, of “discovering while doing”, was even stronger when we were making installations. About one installation project, Chantal wrote: “I had said a lot of things about the installation which followed From the East before making it, and I understand that, more than a film, an installation for me cannot be described in advance, it is born little by little during the work itself. Here too, I will say nothing except for the necessity of fragmentation because this demonstrates well that we cannot show everything of a world.”

During the editing of D’Est, we felt that the long tracking shots over the faces of the people waiting, the images of the people walking, referred back to other people waiting or walking, to other queues, to other stories within history, but we did not talk about it. It was only one year later, when we were setting up the installation “From the East: Bordering on Fiction” that Chantal put the words over the echoes of these images. I will read to you these words from the 25th screen:

You must always write when you want to make a film, although you know nothing of the film you want to make. Yet you already know everything about it, but you don’t realize this – fortunately I would say. Only when it is confronted with the act of making will it reveal itself. Groping along, spluttering, in a state of blind and limping hesitation, sometimes in a flash of self-evidence. And slowly we realize that it is always the same thing that is revealed, a little like the primal scene. And the primal scene for me –although I fight against it, and end up in a rage, I have to face the facts: it is far behind or always in front, old images barely covered by others, more luminous, radiant even. Old images of evacuation, of waking in the snow with packages towards an unknown place, of faces and bodies placed one next to the other, of faces flickering between robust life and the possibility of a death which would strike them down without their having asked for anything.  

It is often said of Chantal that she had aesthetic principles. Well, I believe that principles protect us, and Chantal did not protect herself. She trusted what would happen, she knew how to welcome chance.

Chantal liked frontal shots. It was not a formal decision but a taste, almost a need. The frontal axis does not describe, does not designate, but creates a space of perception and reflection. That space is also what we worked on during editing. It is a space left to the spectators so that they can experience, feel and search. Chantal insisted that the spectators do their own work. She used to say that she wanted people to feel the passing of time in her films. When someone said, “oh I just saw a great film, I didn’t notice the time passing”, she did not think that was a compliment. She felt that the spectator’s time had been stolen. In editing, we never said, “look, there we need a long shot”. We chose the duration intuitively, and we understood later why. It is as if the shots themselves imposed their duration. From the moment the film started to exist it rejected certain scenes, so we did not hesitate to subtract, or to shorten. If the film refused a shot, even a beautiful shot, we did not insist. Often, that gave a force to what followed, so the film won. We used to say that in editing it is a game of “loser wins”.

Each film, each installation was like a first time. We had no rules, fears or barriers. Each time we re-entered a new sensory and intellectual adventure. Our exchanges were very simple. We said few words, as if too many words risked ruining something. We often said, “it’s beautiful” or “it’s strong”. We had words that we liked; she said we must be drastic, without concessions. We also said that we would cut to the quick. I sometimes said to her: “we have to complexify”. She liked this word. She said to me: “Yes, that’s it, complexify a little”. That was when we felt that there was something too overt, too linear. To complexify was not to complicate, it was to add weights and counter-weights, to shape the tension.

For Chantal, everything was possible. She did not want to confine herself to a precise genre. She never wanted to make elitist or confidential cinema. When she made A Couch in New York, she was hoping to make a commercial film that everyone would go and see. By the way, she always wanted everyone to go and see her films. When I started editing Un Divan, Chantal was still filming. I was surprised that there were so many takes per shot. I was not used to that with Chantal; generally, when she felt the take was good, she moved onto another scene. When she returned, she told me why. She said that there was such a financial stake in the film that she had been asked to do a lot of takes “for coverage”. But she said to me: “this is no longer a cover it’s a pile of comforters!! And I am suffocating under these comforters!”

Yes, Chantal was funny. We forget it sometimes. Funny and free. Out of the ordinary. When we were editing South, we edited in the afternoon, and in the morning each of us went about our own business. One day I turned up and she said to me: “what did you do this morning?” She was asking a lot of these types of small talk questions: What did you do? What did you eat … So I told her: “I made curtains”. She replied “You made curtains all by yourself? You know, this impresses me more than if you had won the Oscar for best editing!”

I’ve often been asked if Chantal’s work was political. I think that’s obvious. Her films are political, not because they deal with political subjects, but because they set us in motion. They put us directly in relation with ourselves and with the world. Chantal didn’t want to copy reality or represent it. She didn’t want to explain anything because explanations prevent questions. In her films, the present and visible resonate with the hidden and invisible. And these resonances, these shifts, open space for thought. We discover a new territory, and new meanings arise, meanings that are not set in place.

That’s what makes Chantal’s cinema so powerful and alive.

Claire Atherton

The full version of this tribute has been read by Claire Atherton during the homage to Chantal Akerman at the Cinémathèque Française on 16 November 2015, before the premiere screening of No Home Movie (2015) and was published by Senses of Cinema : Chantal Akerman, An Intimate Passion in December 2015


Claire Atherton is a film editor born in 1963 in San Francisco. Attracted by Taoist philosophy and visual ideograms, she turned to studies of Chinese language and civilization, then she enrolled in the professional branch of the Ecole Louis Lumière in Paris. She was interested in sound and she also worked as a cinematographer. But it’s in the editing that she found her way.

She met Chantal Akerman on a shooting in 1984. Two years later, she edited Letters Home, a little-known film with Delphine and Coralie Seyrig. This work revealed considerable complicity and a shared sensibility with Akerman that have increased with time through documentaries, fiction films and installations. Atherton and Akerman worked together for more than 30 years, until Akerman’s last film No Home Movie and last installation Now.

Moreover, Atherton works as editor with a wide range of filmmakers and artists. She has been collaborating for several years with Eric Baudelaire on his films and installations.

In 2019, she received the Vision Award Ticinomoda from the Locarno International Film Festival for the body of her work.

Precedente

Chantal Akerman
STANZE
Sul custodire e il perdere

Successivo

I Film di Chantal Akerman: Un'intensità scarna e commovente
Ivone Margulies