Mario Airò | UNDERWOOD
Daniele Del Giudice con Stefano Bassanese per la doppia personale di Mario Airò e Massimo Bartolini, Studio Ludovica Barbieri, Venezia 1998.
Per Daniele
«In quegli anni Massimo Bartolini ed io avevamo una frequentazione molto intensa e il nostro dialogo spessissimo divergeva dalle quotidiane ossessioni dell’arte e si rivolgeva a comuni passioni: musica e letteratura in special modo.
Avevamo ambedue moltissimo amore per i libri di Daniele del Giudice: Staccando l’ombra da terra era stato pubblicato solo qualche anno prima ed entrambi l’avevamo letto con sommo piacere e spesso vi accennavamo, anche solo per la gioia poetica che, ogni volta che lo pronunciavamo, questo magnifico titolo ci dava.
Tra i nostri capisaldi letterari svettava ovviamente Atlante occidentale e, quando abbiamo scoperto che Ludovica Barbieri frequentava Daniele, non stavamo più nella pelle all’idea di vederlo dal vero.
Ludovica allora organizzava mostre nella sua casa/studio di Venezia, che utilizzava come spazio espositivo per la sua galleria.
Ci aveva invitato a fare una mostra a due ed è stato durante i discorsi preliminari di questa che abbiamo cercato di inventare un contesto in cui coinvolgere Del Giudice, La fine degli anni novanta era un periodo molto aperto ai possibili, linguisticamente parlando: spronava gli artisti ad osare, a inventare formalizzazioni inaspettate, commistioni tra i più disparati campi, a indagare nuove vie. Sia Massimo che io lavoravamo in questo climax e la possibilità di avere un contributo di Daniele in una situazione orchestrata da noi ci sembrava già di per sé come avere un atout formidabile.
La casa aveva uno studio-biblioteca interamente rivestito da scaffali colmi di libri, quali era consueto trovare nelle dimore borghesi anni fa. Mi sembra di ricordare che vi si accedeva da una porta segreta e che, non affacciandosi sulle calli, vi regnava un’atmosfera ovattata, silenziosa, ideale come luogo per la scrittura.
Massimo un paio d’anni prima aveva ideato una magnifica installazione per la Library della Henry Moore Foundation a Leeds: tramite un rilevatore di presenza le luci della sala si accendevano in un chiarore superiore, accompagnato dal suono di accensione dei computer Macintosh, ogniqualvolta qualcuno accedeva alla sala, per poi ritornare nella loro condizione consueta.
Avevamo pensato di riproporla nella biblioteca, assieme a un altro intervento, centrato sulla presenza della voce e dei testi di Daniele che non gradiva però la dimensione un po’ ieratica, un po’ feticista, un po’ auto-celebrativa, della sua voce “sola” nella stanza. Quindi ci ha proposto di coinvolgere un musicista, Stefano Bassanese, per editare il materiale testuale che lui avrebbe selezionato e letto. Questo ulteriore ampliamento linguistico ci rendeva felici, volti come eravamo alla dilatazione dei limiti e a generare stati di complessità polisemica.
Stefano si è messo a lavorare con fervore: dopo aver registrato con Daniele tutte le tracce, ci siamo incontrati tutti nel suo studio ad ascoltarle e a sentire le prime bozze del remix. Aveva preso l’impegno con estrema serietà ed era intenzionato a riuscire a produrre una composizione di alta qualità musicale, nonostante il poco tempo e la “monodia” del materiale a sua disposizione.
Dopo quest’incontro si è chiuso nel suo studio, da cui è riemerso solo l’ultimo giorno, quello dell’inaugurazione della mostra, e solo allora abbiamo sentito il risultato finale.»
(Mario Airò)
Mario Airò (1961) proviene da studi con Luciano Fabro e da un intenso rapporto con artisti coetanei del gruppo noto come “Lazzaro Palazzi”, dal nome della via in cui misero in piedi uno spazio non-profit. La collaborazione con l’uno e con gli altri, centrata sull’opera come processo e come sintesi formale, ha accompagnato la sua crescita e ha formato un corpus di lavori in cui i fenomeni vitali vengono a rivelarsi in forme poetiche, semplici, sovente volte alla temporaneità e all’afferrare momenti transitori. Parte integrante dei suoi omaggi all’esistenza è anche la cura della ricerca culturale che sta dietro alle opere, come background non esibito ma spesso molto profondo e legato alla classicità della tradizione soprattutto italiana. Senza mai privilegiare alcuna tecnica, ma anzi sempre rivolgendosi a quella che si compenetra maggiormente con il contesto, Airò incarna un modo di concepire il linguaggio artistico privo di ogni dogma e libero di agire in modo flessibile. Questa adattabilità si pone anche come un indirizzo politico, laddove ogni regola può essere revocata o messa in dubbio ma resta sempre un punto fermo il rispetto della vitalità nelle sue mille maniere di esprimersi. L’opera di Airò non parte dunque da un atteggiamento religioso ma ha in sé un lato fortemente spirituale, venato quindi anche di attenzione per fenomeni quali l’alchimia o la scienza, intese come percorsi in cui la vitalità si trasforma e raggiunge con più chiarezza il suo senso.
Tra le più importanti esposizioni cui ha partecipato si segnalano: I Moscow Biennale of Contemporary Art, Mosca (2005); 51. Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia (2003); Kwangju Biennale (Corea 2004); 47. Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia (1997). I suoi lavori sono presenti nelle collezioni del MAXXI, Castello di Rivoli, GNAM di Roma, MaMbo, Museion di Bolzano e altri. Ha realizzato inoltre numerosi progetti pubblici e interdisciplinari: nel 2016 The ever-blossoming garden con il programma Nuovi Committenti, opera permanente per la città di Diest, nel 2010 Re-Place, a cura di Pierluigi Sacco, intervento nel centro dell’Aquila a un anno dal sisma; nel 2006 il Parco tematico nella città di Canistro nell’ambito del programma Nuovi Committenti promosso dalla Fondazione Olivetti e nel 2002 Cosmometrie a Torino per la manifestazione Luci d’artista.