ESPORRE IL CINEMA: CHANTAL AKERMAN

Chantal Akerman, un’avventura moderna
Cyril Béghin

Stills from: (1) Chantal Akerman, No Home Movie, Belgium-France, 2015, Courtesy of Chantal Akerman Foundation (2) Chantal Akerman, News from Home, Belgium-France, 1976, Courtesy of Chantal Akerman Foundation Chantal Akerman, Now, Multiple projection video installation, 2015, Courtesy of Chantal Akerman Foundation and Marian Goodman Gallery, Paris Chantal Akerman, A Voice in the Desert, Single projection video installation, 2002, Courtesy of Chantal Akerman Foundation and Marian Goodman Gallery, Paris

Stills from: (1) Chantal Akerman, No Home Movie, Belgium-France, 2015, Courtesy of Chantal Akerman Foundation
(2) Chantal Akerman, News from Home, Belgium-France, 1976, Courtesy of Chantal Akerman Foundation
Chantal Akerman, Now, Multiple projection video installation, 2015, Courtesy of Chantal Akerman Foundation and Marian Goodman Gallery, Paris
Chantal Akerman, A Voice in the Desert, Single projection video installation, 2002, Courtesy of Chantal Akerman Foundation and Marian Goodman Gallery, Paris

Non ci siamo resi sufficientemente conto che l’ultimo film di Chantal Akerman, No Home Movie e, nel 2015 la morte della regista, hanno segnato, più di ogni altra opera d’arte o evento, l’allontanamento da una certa forma di cinema e da un certo modo di pensare il cinema. Se questa forma, questo pensiero, se il cinema moderno non è ancora giunto al termine, i suoi avventurieri stanno diventando rari e Chantal Akerman è stata tra loro la più singolare.

“Moderno”, senza dubbio per lei non era un grido di battaglia, solo una parola dai contorni ambigui come quella usata per indicare, nella prima sceneggiatura di Jeanne Dielman, la patina fredda delle cose tra cui si vive quando si è nati in Occidente nella metà del 20° secolo, ai tempi del modernismo: “mobili moderni e funzionali (…), una moderna lampada da scrivania (…), un bagno moderno (…). (1) Tuttavia potrebbe essere che, dalla cucina piastrellata di Saute ma ville, del 1968, alle conversazioni con la madre via computer di No Home Movie, nel 2015, Akerman abbia fatto della tensione tra questa modernità (sociale, storica ma si vedrà anche di quale altro tipo) più o meno contrastata e un’altra (estetica e morale) più o meno deviata, una costante del suo lavoro  e anche un profondo interrogativo, -riunendo a questo rispetto, con modalità diverse, i grandi veterani come Jean-Luc Godard o Michelangelo Antonioni- è forse per questo che la sua avventura è stata così essenziale.

Moderno, di questa definizione è anche importante ribadirne la forza in un momento in cui i musei d’arte accolgono l’opera con più urgenza e ampiezza di quanto non facciano le sale dei cinema. Sollecitata in merito sin dalla fine degli anni ’80 a realizzare una video installazione per la mostra “Passages de l’image” al Centre Pompidou, apertura che si concretizza con D’Est: au bord de la fiction del 1995, nel suo lavoro relativo all’arte contemporanea – che il più delle volte ha significato una riconfigurazione spaziale dei film –, Akerman non si è mai allontanata dai fondamenti di un realismo critico ereditato dal cinema moderno: riprese lunghe, montaggio per blocchi autonomi, disgiunzioni sonore, evidenze dell’artificio. Ma l’apertura alle video installazioni avrebbe partecipato a una sfocatura estetica che i suoi film avevano già prodotto a cavallo degli anni ’80, già Golden Eighties sfoggiava i segni pimpanti di un cinema di citazione, della distanza ludica, e del  kitsch visivo che la affiliava direttamente al postmoderno. È la stessa sfocatura che rende difficile pensare a priori il minimalismo radicale di Jeanne Dielman (1975) insieme all’opulenza referenziale di La Captive (2000), l’amoreggiare della commedia romantica in Un divan à New York (1996) e la durezza documentaristica di Sud (1999), il tuffo intimo del romanzo Mia madre ride (2013) e il deserto bombardato dai rumori di una guerra invisibile di Now (2015). Ma ciò che fa di un’avventura propriamente un’ avventura non è l’attraversare paesaggi diversi?

Non si può categorizzare un’avventura, per definizione essa è aperta a ciò che accade. In tal senso, sarebbe quindi sempre “moderna”, una parola stanca che designa sia l’attualità che diversi periodi del passato, a seconda che si sia uno storico delle società, della letteratura, della pittura o del cinema. Akerman ha spesso affermato la sua “non appartenenza”: “Non appartengo a nessun luogo” è una delle tante formule che ripeteva, seguendo la sua arte della ripetizione, la quale ha attraversato tanto la sua opera quanto il suo discorso, e che ha dato il titolo a un bel ritratto documentario della regista. (2) Il culmine dell’avventura è la non appartenenza. Il culmine dell’avventura moderna è sfuggire alla stessa modernità, senza tregua, per il gusto gioioso della novità e nella libertà di ciò che non può essere affiliato, pur radicando in questa modernità alcuni principi incrollabili – dopo tutto, per ritornare alla storia del cinema, questo è esattamente ciò che ha fatto Roberto Rossellini, fondatore della modernità qui in questione. Chantal Akerman, ha seguito una direzione del genere, senza naturalmente averlo programmato. Esordisce con l’avanguardia (quella dei suoi film newyorkesi), prosegue con due monumenti di pura modernità (Je tu il elle, Jeanne Dielman, capolavoro che si è ripromessa di non rifare mai) i cui tratti si ritroveranno  nei film più tardivi (D’Est, Là-bas, No Home Movie), o temperati in una fiction apparentemente più consensuale (Les Rendez-vous d’Anna, 1978), prima di impegnarsi nel postmoderno (Golden Eighties, 1986; Histoires d’Amérique , 1989), di rendere un omaggio ingannevole alla commedia americana classica (Un divan à New York), di visitare il manierismo (La Captive) e il “contemporaneo” (le installazioni), il tutto mentre scrive testi, un’opera teatrale (Hall de nuit, 1992), un racconto (Una famiglia a Bruxelles, 1998), un autoritratto (Autoportrait en cinéaste, 2004) e un racconto autobiografico (Ma mère rit), i cui stili rivelano un’influenza del Nouveau Roman – anche se l’unico scrittore che diceva le piacesse veramente è stato Georges Perec. Ma attraverso questo intreccio di modi, registri, linguaggi e formati, c’è più di un filo rosso. Le cose necessitano di un certo tempo per essere viste. La ripresa è l’unità fondamentale del cinema. L’inquadratura organizza rigorosamente lo spazio. Una persona avanza sempre frontalmente. Alcune situazioni non si ripresentano. La solitudine è irrimediabile. Tutto potrebbe finire in una canzone.

Perché è così importante affermare questo significato del moderno in un’opera che, in fondo, ci parla prima di tutto di altre cose? Per la semplice ragione che niente nell’opera della Akerman ci commuove o ci fa pensare al di fuori del provare la sua forma. Le dichiarazioni sono scarse, ma molte sono le pressioni e le impressioni. La vita meccanica di Jeanne Dielman chiusa tra le lunghe riprese delle stanze fa impressione; impressionanti sono le sfilate di figure anonime sui marciapiedi russi in D’Est, ancora più numerose sui monitor dell’installazione D’Est: au bord de la fiction; impressionanti, le parti di buio e di esplosione di luci che bucano l’appartamento della madre della regista, in No Home Movie. In Akerman, a dispetto delle apparenze, non sono presenti grandi tematiche (il femminismo, l’omosessualità e più in generale la libertà in amore, la memoria dei campi di concentramento, il post-colonialismo), ma solo grandi forme attraverso cui tali soggetti appaiono tanto in quanto diluiti, in una labilità di significato che costituisce il suo primo tratto moderno.

L’avventura è presente, nel senso più banale, sin dagli esordi della cineasta: una giovane donna belga parte per gli Stati Uniti per fare film, senza soldi, senza garanzie di riuscita, appena dopo aver realizzato, all’età di 18 anni, il suo primo cortometraggio. Non solo non cerca la macchina Hollywoodiana, ma vi trova invece l’avanguardia newyorkese. Mette in scena questo esilio personale e intellettuale nel 1977, nel capolavoro News from Home, come un dissolvimento di sé nelle ripetitive vedute di New York. Più tardi saranno i viaggi di Anna in Europa, le riprese in Europa orientale e Nord America per D’Est, Sud e De l’autre cȏtè, la ricerca di location per un progetto documentario sul Medio Oriente, poi le riprese di Là-bas a Tel Aviv, e ancora, l’Asia in Tombée de nuit sur Shanghai e La Folie Almayer (2012) – l’adattare Joseph Conrad è tanto una sfida alla mancanza di audacità del cinema francese, quanto un modo per affermare forte e chiaro questo senso di avventura, anche se era destino scontrarsi con insuperabili ostacoli. L’avventura, sotto forma di grande partenza ed esplorazione, è dunque l’orizzonte costante e necessario di tutti gli spazi claustrofobici, di tutti i confinamenti fatali, di tutte le “cattività” che punteggiano i film, è a partire da questa dialettica tra la “stanza” e il “laggiù” che il suo lavoro tra gli spazi chiusi dei musei si inserisce nella coerenza generale dell’opera. L’installazione From the Other Side, realizzata per Documenta nel 2002, ne ha dettato i termini in modo più chiaro. Uno schermo cinematografico era stato eretto nel deserto, al confine tra l’Arizona e il Messico. L’ultima ripresa del film De l’autre cȏtè, una carrellata notturna, è stata proiettata lì all’alba. La luce del sole che faceva lentamente sbiadire la luce dall’immagine è stata filmata e  il tutto trasmesso in diretta in una “stanza buia” di Documenta. Abbiamo così contemplato, rinchiusi davanti a un’immagine inquadrata, la cancellazione di un doppio limite: l’invisibilità del confine e la diluizione della luce.

Sono le strutture ripetitive, le durate dilatate e gli effetti dello stare fermi nei film e nelle installazioni di Akerman ad essere di sovente discussi, piuttosto che il suo gusto per la partenza o lo spostamento. La morsa del banale, la tetania del quotidiano e la routine, sono tuttavia inseparabili da ciò che le fa esplodere: Saute ma ville. Non dimentichiamo che uno dei primi titoli per Jeanne Dielman era Elle vogue vers l’Amérique (: Lei parte per l’America). Ma accontentarsi di pensare all’avventura moderna della regista come alla storia di un continuo andirivieni tra dentro e fuori, tra coercizione e liberazione, tra oppressione ed emancipazione, significherebbe perdere la prova  che essa offre. In un breve e illuminante saggio, Giorgio Agamben mette in guardia contro una comprensione della parola “avventura” che conservi esclusivamente la sua distorsione romantica. (3) Nei testi medievali, prima di significare una straordinaria successione di eventi o il corso di un destino, l’avventura veniva confusa con la forma del poema che ne riportava gli episodi. L’avventura va allora intesa come il luogo di una coincidenza tra “gli eventi e il racconto, tra i fatti e le parole”: l’avventura è la poesia. (4) La modernità di Akerman è senza dubbio dovuta anche al suo volontario anti romanticismo, secondo il quale la forma non è l’espressione lirica del contenuto ma un’esperienza, a volte difficile, che richiede un adattamento percettivo dello spettatore, come se lo schermo fosse un’interfaccia con regole proprie, a volte accecanti, tra le quali le principali sono quelle della prospettiva. (5) Davanti a un film o a un’installazione di Akerman, bisogna accettare l’avventura della percezione per poter avere accesso a ciò che viene mostrato o raccontato. Non c’è esempio migliore di ciò della messa in scena di Là-bas, dove la regista si reca in Israele per chiudersi in una stanza a Tel Aviv e filmare a lungo un edificio nelle vicinanze attraverso la griglia orizzontale delle sue tende veneziane, mentre la sua voce fuori campo racconta  della sua vita quotidiana e del suo rapporto – familiare, riflessivo – con la storia del Paese. La trama delle tende si sostituisce al filo narrativo: non succede nulla eppure l’immagine è “crivellata di eventi”  (6) tanto insignificanti quanto carichi di risonanze dovute alla situazione e alla voce. Nelle opere più belle di Akerman, l’avventura moderna è letteralmente questa concrezione di significato nella forma, ciò che Giorgio Agamben chiama “verità poetica”. (7)

Quello che lo spettatore sperimenta non è un “dispositivo”, ma un’immagine o un insieme di immagini. Se il confine a volte è sottile, esso è tuttavia cruciale. Partecipa ovviamente all’offuscamento di cui abbiamo parlato prima: il lavoro di Akerman è affiliato al “contemporaneo”, altra parola onnicomprensiva, perché sembra cedere, ed essere idealmente adattabile, all’estetica dei dispositivi. La geometria dei piani frontali o laterali, la meccanica delle carrellate, la plasticità depurata degli spazi (dalla cucina di Saute ma ville a quella di No Home Movie passando per il museo Rodin in La Captive, e alle installazioni), l’apparente chiarezza di alcune intenzioni o generi di riferimento (l’alternanza di documentari e fictions) sembrerebbe designare un’arte di sistemi, dove la struttura degli elementi che compongono le opere e la loro esposizione sarebbe importante quanto le opere stesse. Niente è meno vero. Akerman ha spesso affermato di essere stata segnata  da The Central Region, proprio perché la sfida del film di Michael Snow è quella di non mostrare mai il dispositivo che produce quelle inquadrature da capogiro. Da un lato, non siamo invitati all’osservazione di modalità (prospettiche, visive, scultoree) e, dall’altro, nemmeno a trarre significato o emozione dall’interazione tra il loro disegno o il loro montaggio, che avrebbero un significato in se stessi, e una serie di figure che raccontano una storia o incarnano fatti. Non possiamo separare Jeanne Dielman dalla strana luce blu che lampeggia nel suo soggiorno, tanto quanto non possiamo isolare le visioni del deserto di Now dalla disposizione a V degli schermi su cui sono proiettate le immagini. Non si tratta tanto di dispositivi, quanto della messa in scena. Si tratta sempre di produrre delle immagini di cui lo spettatore farà esperienza in un determinato spazio e in un certo tempo – per quanto povere o impossibili possano essere queste immagini, come  Akerman  ha dichiarato alla fine dell’installazione D’Est, e seguendo la costellazione di precetti che non ha mai smesso di guidarla (il dispositivo, per lei, quindi non si sostituisce al divieto dell’immagine, come sarebbe anche conveniente pensare).

La definizione di “moderna” nell’opera di Akerman ha ancora altre forme e ragioni. Alcune di esse si ritrovano nella commuovente semplicità del racconto di Portrait d’une jeune fille de la fin des annèes 60 à Bruxelles (1994): la libertà amorosa, l’evidenza dell’omosessualità che non impedisce giochi più o meno tristi con gli uomini, e l’irrimediabile solitudine con la quale il più delle volte finiscono le avventure del cuore. La modernità della cineasta non deriva solo dal fatto che essa sfoca così i confini tra finzione e autofinzione e che lo fa regolarmente apparendo di persona nell’immagine, attraverso un coinvolgimento fisico che a volte richiede pochi gesti e posture (anche nell’installazione Maniac Shadows e nel film No Home Movie) o che si avvicina al lavoro di attrice (in questo senso il più riuscito è senza dubbio il retroscena comico di L’Homme à la valise, realizzato per la televisione nel 1983, in cui detiene uno dei ruoli principali). Akerman ha sempre rifiutato di commentare il carattere femminile, femminista o omosessuale del suo cinema, come eventuali riduzioni di genere:  in questo senso non è ancora stata “contemporanea”. Se ha saputo sfidarsi piacevolmente: “E io, che sono una donna, perché non dovrei fare un film da uomo di tanto in tanto?” (8), è proprio perché una sorta di questione maschile ha attraversato anche il suo cinema (ma non le installazioni, e questo potrebbe costituire materia di riflessione), sotto forma di figure complesse e invivibili, nella malinconia di spazi e amori impossibili da condividere (letteralmente, nell’alternanza degli amanti in Nuit et Jour, nel 1991, poi nell’alternanza di case in Un divan à New York), che Stanislas Merhar ha incarnato ben due volte, come amante geloso e disperato in La Captive, poi come miserabile padre in La Folie Almayer (“Una tale immagine di padre, credo non sia mai stata vista in un film“, si rallegrava Akerman). (9) “Io sono una donna” è l’affermazione minima e integrale, iscritta all’inizio del diario della madre della madre assassinata ad Auschwitz e che la regista cita nel cuore di una delle sue installazioni più essenziali, Marcher à cȏté de ses lacets dans un frigidaire vide (2004). In quanto a verità poetica, la ricchezza e la potenza dell’analisi femminista nel cinema di Akerman non hanno eguali perché lei non ha mai preso diversa posizione, né ha posto una parola d’ordine, e perché a questa politica del rifiuto ha unito un’arte radicale della rappresentazione e del punto di vista ( non c’è  decostruzione dello sguardo maschile più efficace del voyeuristico inseguimento fatale di La Captive) a un’ossessione infaticabile, quella che, fino a No Home Movie, faceva della madre, cioè la figlia di colei che poteva dire “Io sono una donna” – una chiave costante dei film.

Dove e quando inizia la modernità? Le risposte storiche possono andare indietro nel tempo insieme a quelle della genealogia di Chantal Akerman. Moderna, la giovane ragazza degli anni ’60 che scopre le avanguardie contemporaneamente alla sua sessualità; tragicamente moderna, sua madre scampata ai campi di sterminio che con il marito sarebbe quasi partita per stabilirsi in Israele, nei primi tempi dello Stato Ebraico, e la cui sopravvivenza testimonia, senza profferire parola, il terrore definitivo per il quale la seconda guerra mondiale ha segnato una cesura nel cuore della storia; per l’appunto moderna, la madre della madre, che fu contemporanea di Marcel Proust, di Joseph Conrad o di Colette, e che fu travolta dalla barbarie nazista. Anche qui, senza che la regista abbia avuto progetto alcuno, sembra possibile rileggere il suo lavoro come un’archeologia frammentaria della modernità, sia storica che estetica, entrambe si accompagnano nell’avventura della memoria che compone i film, le installazioni e i libri. Andando il più indietro possibile, il vicolo cieco di questa archeologia risale al 1863,  anno in cui viene pubblicato Il pittore della vita moderna di Baudelaire e il cui capitolo “Modernità” è considerato da ogni storico come la nascita di questa nozione.

È proprio l’anno con cui inizia il romanzo The Manor di Isaac Bashevis Singer, dove si narra la storia di una famiglia ebrea polacca divisa tra tradizione e nuovo mondo, della quale Akerman aveva scritto una sceneggiatura alla fine degli anni ’70, salvo poi non trovare il finanziamento per la sua produzione. Gli anni Sessanta dell’Ottocento furono anche il decennio in cui Dostoevskij scrisse L’idiota, romanzo che la regista intendeva adattare, poco prima della sua morte. Conrad (La Folie Almayer) nacque nel 1857, Proust (La Captive) nel 1871, Colette ( di cui Akerman aveva scritto una sceneggiatura inedita tratta dal romanzo Chéri) nel 1873.

Qui sta la fonte dei lenti vortici temporali di Akerman: quella spirale dell’origine che lei avvolge a forma di schermo di proiezione recante le parole della nonna e che, nell’installazione Marcher à cȏté de ses lacets dans un frigidaire vide, si ritorce su se stessa; le ucronie di La Captive e La Folie Almayer, che mescolano segni di epoche diverse (attraverso i quali si unisce alla prematura modernità di Manoel de Oliveira); le libere associazioni provocate dalle lunghe riprese di D’Est, Sud, De l’autre cȏté e Là-bas, ciascuno girato in aree geografiche diverse ma con la stessa tendenza a fare della durata delle riprese il fondamento di un’amplificazione del racconto. Il 1860 e la fine del 19° secolo, l’era dei pogrom, del colonialismo trionfante e dell’espansione del patriarcato capitalista, sono come il fantasma finale alle spalle dell’opera; ma è anche l’era della fotografia, di una nuova ontologia delle immagini, ossia del sentimento del presente e della presenza delle cose rappresentate,  del loro legame autentico con la realtà che sta alla base dell’arte di Akerman: là dove, per “obbedienza all’impressione”, ella ha creato, come scrisse Baudelaire, “la memoria (…) della fantastica realtà della vita”. (10)

Cyril Béghin

Il saggio “Chantal Akerman: un’avventura moderna” di Cyril Béghin è stato scritto e pubblicato in: Chantal Akerman, Passages. Eye Filmmuseum, Amsterdam e nai010 publishers Rotterdam, 2020.
(1) Chantal Akerman, Elle vogue vers l’Amérique, senza data (probabilmente 1974), pubblicato per la prima volta, in parte, in Jacqueline Aubenas (a cura di), Chantal Akerman, Atelier des arts, Cahier no. 1, 1982.
(2) Marianne Lambert (dir.), I Don’t Belong Anywhere. The Cinema of Chantal Akerman (Bruxelles, Artémis Productions, 2015).
(3) Giorgio Agamben, The Adventure, traduzione di Lorenzo Chiesa (Cambridge, MA: The MIT Press, 2018).
(4) Ibid., 33.
(5) Sullo schermo-interfaccia nei film e nelle installazioni di Chantal Akerman, si veda Giuliana Bruno, “Projections: on Akerman’s Screens”, in Anders Kreuger e Dieter Roelstraete (a cura di), Chantal Akerman: Too Far, Too Close (Antwerp: Ludion, 2012).
(6) Raymond Bellour, “Être au cinema” [su Là-bas], Trafic no. 62 (estate 2007), ripubblicato in Raymond Bellour, La Querelle des dispositifs, (Paris: P.O.L, 2012), 374.
(7) Op. cit., 33.
(8) “Désancrées”, intervista a Chantal Akerman e Marie Losier, a cura di Nicholas Elliott, Cahiers du cinéma no. 681 (settembre 2012), 32.
(9) Intervista di Cyril Béghin a Chantal Akerman, cartella stampa di La folie Almayer, 2009.(10) Charles Baudelaire, The Painter of Modern Life, 1863, in Baudelaire: Selected Writings on Art and Literature, tradotto da P.E. Charvet (Londra: Penguin Classics, 2006), 406.


Cyril Béghin è un critico cinematografico francese. Ha scritto per i Cahiers du cinéma dal 2004 al 2020 ed è stato membro del suo comitato editoriale dal 2009 al 2020. Scrive regolarmente per riviste, libri collettivi e cataloghi. Tra gli altri libri, è stato il curatore scientifico dei Dialoghi di Jean-Luc Godard e Marguerite Duras (Post-éditions, 2014) e sta attualmente lavorando a una raccolta di tutti i saggi e le sceneggiature di Chantal Akerman, che sarà pubblicata all’inizio del 2024 (edizioni L’Arachnéen). È anche collaboratore della performer e coreografa Valeria Apicella, e partecipa al suo progetto puntozerovaleriaapicella, uno spazio indipendente d’arte e ricerca a Napoli.

Precedente

Abitare lo spazio domestico
Corinne Maury

Successivo

XVIII Giornata del Contemporaneo