I Film di Chantal Akerman: Un’intensità scarna e commovente
Ivone Margulies
Chantal Akerman oversees a vocal recording for a musical in Les Années 80 (The Eighties, Akerman, 1983)
Sono lieta di rendere omaggio ancora una volta a Chantal Akerman, una persona e artista di immensa integrità e grazia. Dopo molti anni di coinvolgimento nel suo lavoro, ricordo ancora l’esperienza del guardare Jeanne Dielman per la prima volta al Metro Theater di New York (in un impossibile doppio spettacolo con Céline e Julie Go Boating). Molto più tardi, durante molte lezioni dedicate ai suoi film sperimento ancora e ancora, attraverso i miei giovani studenti, l’intensa eccitazione estetica nell’incontrare un lavoro così meravigliosamente audace.
Il mio primo pezzo sulla Akerman si intitolava “Un’intensità scarna e commovente”, parole che credo siano ancora applicabili ai suoi film e alla sua persona. Cosa potrebbe meglio spiegare l’inquieta espressività della cineasta, la sua impazienza verso il conforto di un precedente successo, che commuoversi, e cosa se non un’intensità scarna riflette l’impronta duratura dei suoi film, la loro emozione memorabile e lentamente sprigionata?
“E me ne sono andata”, la prima battuta di Je tu il elle proclama già la possibile fuga creativa quando ci si muove all’interno della propria stanza. I protagonisti più forti della Akerman vanno avanti anche se ascoltano con attenzione le richieste di restare, come per Anna in Les rendez-vous d’Anna. L’identificazione di Chantal con la feroce autonomia di questi personaggi è stata veicolata invariabilmente attraverso una scena semplice ma stupefacente in cui, in un assolo o in un duetto, una donna si erge per cantare fuori tono: vestita con un accappatoio bianco in una moderna stanza d’albergo, Anna canta una ballata di Edith Piaf; in La captive Ariane canta in duetto con una donna dall’altra parte della sua finestra (Così fan tutte); e all’inizio di Almayer’s Folly (2011), Nina ci affronta solennemente per cantare “Ave verum corpus” di Mozart in un bar karaoke. L’orgoglio provocatorio e la gioia tranquilla illuminano i loro volti. Loro, come la Akerman, si muovono al loro proprio ritmo.
Akerman era audace, diretta, attuale e divertente. Queste qualità, evidenti a tutti coloro che la conoscevano, sono vive nei suoi film — come nella pressione frontale delle sue inquadrature e soprattutto nei tempi idiosincratici suoi e dei suoi personaggi.
Muovendosi vertiginosamente attraverso diversi generi e modalità — tragedia, burlesque, slapstick, musical, film-studio e documentario — ha messo alla prova l’elasticità del tempo e il suo effetto. E il suo tempismo, applicato ai gesti e alle pause, era infallibile. Chantal diceva che poteva sentire quando un’immagine catturava, quando aveva forza. Sapeva anche quando una ripresa doveva finire. Questa intuizione la condivideva con la sua amica ed editor Claire Atherton, che sapeva tagliare in accordo al suo respiro. Ed è stato proprio il respiro della Akerman, la sua presenza attenta, a tenerci incantati. I suoi temi ripetuti ossessivamente — possessività rispetto ad autonomia, ansia e noia, i silenzi e le sonorità della sua personale storia Ebraica — passano attraverso le sue immagini austere e straordinariamente chiare.
Quando ha voluto staccarsi dalla maestria strutturale di Jeanne Dielman, ha realizzato musical e commedie, generi che prosperano sull’incongruenza e sul fallimento. E quando Chantal stessa appariva in questi film, un’animazione maniacale ed eccessiva stimolava la sua mise-en-scène: dirige il canto di Natale in The Eighties con una combinata, frenetica gesticolazione; si prende gioco della sua immagine lunga e lenta di cineasta accelerando e biascicando le sue battute in Lettre d’un cinéaste (1984); in “Sloth”, prende le sue pillole vitaminiche in un solo sorso per contrastare la sua tendenza a procrastinare. Queste compressioni esagerate divennero la firma della Akerman, un insieme di temi e strategie a cui attingeva ogni volta che sentiva il bisogno di compensare la sua sobrietà minimalista.
Chantal amava cantare. Già in Saute ma ville (1968), il suo primo film, alterna i suoni del sigillare la sua porta con lo scotch a un morso croccante della sua mela, producendo una musica che collega il dramma al quotidiano. E quando due giovani donne passeggiano a Parigi e improvvisamente deviano, fermandosi per pronunce in rima – “Ho freddo”, “Ho fame” – ci divertiamo nel rilevare il doppio ritmo di ripetizione e differenza che struttura i suoi film.
L’inclinazione della Akerman per le storie raccontate e ri-raccontate, per la rotazione ciclica delle barzellette e dei vecchi detti — in Histoires d’Amérique e altrove — ci dice qualcosa di questa sensibilità per il cambiamento sottile, la piccola variazione. In Toute une nuit (1982), la sua esuberante ode all’amore romantico, personaggi di tutte le età si accoppiano e si disaccoppiano in brevi esplosioni di desiderio, desiderio sessuale, e noia. I gesti si estendono tra la fiacchezza e l’impulsività, e i corpi che si scontrano si trasformano in danze incredibilmente lunghe e appassionate su una musica sdolcinata. I cliché non sono mai banali nei film della Akerman perchè insistono su ciò che ha bisogno di essere ripetuto. Tutto il suo lavoro è in sintonia con la singolarità che pulsa nelle routine domestiche, come modi particolari di fare l’amore o di aspettare in coda.
Dopo quello che sarebbe stato il suo ultimo film, No Home Movie, la Akerman ha sottolineato che non pensava di poter tornare al tipo di riprese che faceva precedentemente: “La maggior parte dei miei film toccavano le persone ma non in modo così diretto… erano basati più sull’implosione che sull’esplosione”. Mentre la regista filma nell’appartamento di sua madre, tornando alla matrice di tutti gli interni dei suoi film, abbraccia la schiettezza della forma dell’ home movie per ridisegnare analogamente gli elementi dell’intricato rapporto di simbiosi e distanza tra lei e sua madre.
La mappa affettiva gestita da Chantal Akerman, la persona e l’artista, ha sempre implicato una tensione tra evocazione astratta e quotidianità concreta, tra silenzi carichi ed emozioni profondamente sentite ed espresse. Così, l’immediatezza emotiva del film deve essere compresa insieme alla tipica indeterminazione della regista, i discorsi in cucina insieme alle inquadrature del deserto.
Le conversazioni con la madre in particolare sono sorprendentemente elementari, e forniscono un altro registro con cui cogliere, nei dialoghi eccessivamente lunghi e ridondanti dei suoi film, la trasmutazione della vita personale dell’artista. Qui, nel suo ultimo film, sentiamo davvero, impossibilmente allungati e ripetuti, i saluti e i moti d’affetto che così elegantemente incombono su News from Home. Al tavolo della cucina, Chantal lancia cliché a sua madre come a una bambina: “la carne è proteina, fortifica i muscoli… la buccia della patata contiene vitamine”. Pronuncia benedizioni ebraiche con sua madre per mettere alla prova la “sua” memoria. Che questi semplici scambi avvengano in questo appartamento, il luogo di tutti i pensieri meditativi della Akerman, conferma il sorprendente risultato di questo film: tornare alla fonte della propria arte, mantenere la sua integrità quotidiana, e dare forma ancora a un altro film perfetto.
Rivolgendosi al suo approccio rimuginante, una volta la Akerman ha chiesto retoricamente: “È perché abbiamo già visto qualcosa che pensiamo di non aver più bisogno di vederla? Al contrario, quando mostriamo qualcosa che tutti hanno visto, è forse a quel punto che la vediamo per la prima volta. La donna, voltata di spalle, prende le patate, Delphine, mia madre, tu stessa. Una donna, sì, ma per un minuto anche un corridoio? Un albero?”
La Akerman ha accettato la sfida di guardare ancora per vedere per la prima volta, e ha esplorato le sottocorrenti inquietanti di ciò che è ben noto. I suoi ripetitivi dialoghi riproducevano la monotona litania delle preghiere che sentiva da bambina in sinagoga. E mentre tutti i suoi film sono imbevuti di frequenze familiari, confortanti e soffocanti, ha saputo modulare questa quiete trasformandola in arte con una precisa logica formale ed emotiva. In News from Home, rievoca le lettere di sua madre mentre il film dispensa al mondo le sue amorevoli parole: “Mia cara, vivo al ritmo delle tue lettere”.
Avversa allo stridore e ai manifesti, la Akerman era attratta da quelle che Deleuze e Guattari chiamavano espressioni minori, lettere, canzoni e barzellette. Le lettere che attraversano frequentemente la sua opera parlano della sua ricerca di risonanze tra la sua storia personale e altre sofferenze e malesseri correnti. Una di queste lettere, tra le più toccanti, è stata letta durante una riunione improvvisata intorno a un tavolo in From the Other Side (2002). Dopo aver incontrato alcuni messicani che erano stati abbandonati nel corso del loro tentativo di attraversare il confine, la Akerman li invita a pranzo. Come ringraziamento, leggono una lettera firmata collettivamente davanti alla cinepresa. È a questa tavola, un banchetto di parole e immagini espressive, suscitate dall’ascolto attento della Akerman, che siamo invitati e ci riuniamo ogni volta che continuiamo a guardare i suoi commuoventi film.
Ivone Margulies
Questo contributo è stato letto da Ivone Margulies per la cerimonia di consegna del Premio Marco Melani alla memoria di Chantal Akerman, 11 dicembre 2021
Trad.: Letizia Mari
Ivone Margulies è una studiosa e critica cinematografica. È autrice di Nothing Happens: Chantal Akerman’s Hyperrealist Everyday (tradotto in portoghese e spagnolo) e ha pubblicato molto su Chantal Akerman, sulla performance e sul realismo nei cinema francesi e brasiliani, nonché sugli artisti che operano con immagini in movimento. Il suo libro più recente In Person: Reenactment in Postwar and Contemporary Cinema (2019) è stato lanciato con una serie correlata presso Anthology Film Archives. È la curatrice di Rites of Realism: Essays on Corporeal Cinema e co-editor di On Women’s Films: Across worlds and Generations. Margulies è professore nel dipartimento di studi sul cinema e media dell’Hunter College e presso il Graduate Center della City University di New York (CUNY).
Chantal Akerman films: A Dry and Moving intensity
I am pleased to pay tribute once again to Chantal Akerman, a person and artist of immense integrity and grace. After many years of involvement with her work, I can still remember the experience of watching Jeanne Dielman for the first time at New York’s erstwhile Metro Theater (in an impossible double bill with Céline and Julie Go Boating). Much later, during many classes devoted to her films I experience again and again, through my young students the intense aesthetic excitement at encountering work that is so perfectly bold.
My first piece on Akerman was called “A Dry and Moving Intensity,” words I believe apply still to her films and person. For what could better account for the filmmaker’s restless expressivity, her impatience with the comfort of a successful precedent, than moving, and what but dry intensity reflects the lasting imprint of her films, their memorable and slowly released emotion?
“And I left,” the first line in Je tu il elle proclaims already the creative escape possible as one moves inside one’s own room. Akerman’s strongest protagonists move on even as they attentively listen to demands to stay, as with Anna in Les rendez-vous d’Anna . Chantal’s identification with these characters’ fierce autonomy was conveyed invariably through a simple but stunning scene in which, in a solo or a duet, a woman stands up to sing off-key: dressed in a white towel robe in a modern hotel room, Anna sings an Edith Piaf ballad; in La captive Ariane sings in a duet with a woman from across her window (Così fan tutte); and at the start of Almayer’s Folly (2011), Nina solemnly faces us to sing Mozart’s “Ave verum corpus” in a karaoke bar. Defiant pride and quiet joy light up their countenances. They, as Akerman, move to their own beat.
Akerman was bold, direct, present, and funny. These qualities, apparent to all those who knew her, are alive in her films—in the frontal pressure of her shots and especially in her and her characters’ idiosyncratic timing.
Vertiginously moving across different genres and modes—tragedy, burlesque, slapstick, musical, the essay film, and documentary—she tested time’s elasticity and affect. And her timing, applied to gestures and pauses, was unerring. Chantal used to say she could feel when an image took, when it had force. She also knew when a shot should end. This intuition she shared with her friend and editor Claire Atherton, who knew how to cut according to her breathing. And it was indeed Akerman’s breathing, her attentive presence, that held us enthralled. Her obsessively replayed themes—possessiveness versus autonomy, anxiety and boredom, the silences and sonorities of her personal Jewish history—bore through her austere, strikingly clear images.
When she wanted to break away from the structural mastery of Jeanne Dielman, she made musicals and comedies, genres that thrive on incongruity and failure. And when Chantal herself appeared in these films, a manic, excessive animation energized her mise-en-scène: she conducts Noël’s singing in The Eighties with a matching, frantic gesticulation; she mocks her image as a long, slow filmmaker by speeding up and slurring her lines in Lettre d’un cinéaste(1984); in “Sloth”, she takes her vitamin pills in one gulp to counter her procrastination. Such overstated compressions became Akerman’s signature, a set of themes and strategies she drew on each time she felt the need to offset her minimalist sobriety.
Chantal loved singing. Already in Saute ma ville (1968), her first film, she alternates the sounds of sealing her door with Scotch tape with a crunchy bite of her apple, making music that links drama to the everyday. And when two young women stroll in Paris and suddenly swerve, stopping for rhymed pronouncements—“I am cold,” “I am hungry”—we delight in detecting the double beat of repetition and difference that structures her films.
Akerman’s penchant for stories told and retold, for the cyclical circulation of jokes and old sayings—in Histoires d’Amérique and elsewhere—tells us something of this sensibility for the subtle twist, the small variation. In Toute une nuit (1982), her ebullient ode to romantic love, characters of all ages couple and decouple in short bursts of longing, sexual desire, and boredom. Gestures stretch between lassitude and impulsivity, and bumping bodies morph into impossibly long and passionate dances to schmaltzy music. Clichés are never banal in Akerman’s films because they insist on what needs repeating. Her entire work is attuned to the singularity that pulses through domestic routines, to particular ways of making love or of waiting in line.
After what would be her last film, No Home Movie, Akerman remarked she did not think she could go back to the type of filming she did before: “Most of my films were touching on people but not in such a direct way…they were more into implosion than explosion.” As the director films in her mother’s apartment, returning to the matrix of all of her films’ interiors, she embraces the directness of the home movie form to redesign analogues for the intricate relationship of symbiosis and distance between herself and her mother.
The affective map managed by Chantal Akerman, the person and the artist, had always involved a tension between abstract evocation and concrete dailyness, between charged silences and deeply felt and expressed emotions. Thus, the film’s emotional immediacy has to be understood alongside the filmmaker’s characteristic indirection, the kitchen talks along with the desert shots.
The conversations with her mother in particular are strikingly elemental, providing another register by which to grasp the artist’s transmutation of personal life into her films’ overlong and redundant dialogues. Here, in her last film, we actually hear the impossibly stretched and repeated goodbyes and terms of endearment that so elegantly hang over News from Home. At the kitchen table, Chantal spouts cliches to her mother as if to a child: “meat is protein, it builds muscles…the potato skin has vitamins.” She mouths Hebrew blessings with her mother to test “her” memory. That such simple exchanges happen within this apartment, the locus of all of Akerman’s ruminative thoughts, confirms this film’s astonishing accomplishment: to return to the source of one’s art, to maintain its everyday integrity, and to shape still yet another perfect film.
Addressing her ruminative approach, Akerman once asked rhetorically: “Is it because we saw something already that we think we don’t need to see it any longer? On the contrary, when we show something everyone has seen, it is perhaps at that point we see if for the first time. The woman, her back to us, pulls out potatoes, Delphine, my mother, yourself. A woman, yes, but a corridor for a minute? A tree?”
Akerman took on the challenge of looking again to see for the first time, and she explored the uncanny undercurrents of the familiar. Her rounded dialogues reproduced the monotone litany of the prayers she heard as child at the synagogue. And while all her films are infused with familiar cadences, comforting and suffocating, she modulated this hush into art with an exacting formal and emotional logic. In News from Home, she echoes her mother’s letters as the film dispatches her loving words out into the world: “My darling, I live to the rhythm of your letters.”
Averse to stridency and manifestos, Akerman was drawn toward what Deleuze and Guattari called minor expressions, to letters, songs, and jokes. The letters frequently crossing her oeuvre speak of her search for the resonances between her own personal history and other current plights and displacements. One of the most poignant of these letters is read at an impromptu gathering around a table in From the Other Side (2002). After meeting some Mexicans who have been abandoned in the middle of their attempt to cross the border, Akerman invites them for a meal. In thanks, they read a collectively signed letter to the camera. It is to this table, a banquet of expressive words and images, elicited through Akerman’s attentive listening, that we are invited and gather each time we continue to watch her moving films.
This contribution was read by Ivone Margulies for the award ceremony of the Premio Marco Melani in memory of Chantal Akerman, December 11, 2021.
Ivone Margulies is a film scholar and critic. She is the author of Nothing Happens: Chantal Akerman’s Hyperrealist Everyday (translated into Portuguese and Spanish) and has published extensively on Chantal Akerman, on performance and realism in French and Brazilian cinemas as well as on moving image artists. Her most recent book In Person: Reenactment in Postwar and Contemporary Cinema (2019) was launched with a related series at Anthology Film Archives. She is the editor of Rites of Realism: Essays on Corporeal Cinema and co-editor of On Women’s Films: Across worlds and Generations. Margulies is Professor in the Film and Media Studies Dept. at Hunter College and at the Graduate Center at City University of New York, (CUNY).